It’s dangerous to go alone! Take this, di Antonio Amodio

Il 23 febbraio si è tenuta la premiazione della prima edizione del Premio Oblivion! Votate e votati dai 45 editori che hanno partecipato alla fiera, vi sono state e stati sei tra vincitrici e vincitori, e due menzioni d’onore! A partire da oggi, ogni settimana condivideremo i racconti che hanno meritato il loro premio!

È finalmente arrivato il turno di Antonio Amodio, che con il suo racconto It’s dangerous to go alone! Take this, ha vinto la sezione Miglior racconto d’azione.

A voi, buona lettura!


Lo guardo. Il suo viso è un enorme bubbone. Bordignon si muove a stento. Rantola, però non grida. Con un tonfo, l’avambraccio gli cade dal mezzo moncone, poi resta lì. Nessuno lo raccoglie, neppure gli infermieri. Vorrei dar di stomaco, ma è vuoto.

Fuori dalla metro Fermi, fra i bus che accostano alle banchine del capolinea, stagna uno smog asfissiante. Il tabacchi ha le serrande giù, l’edicola è chiusa e mi prude la pelle, anche coi guanti. Oggi Tommaso Er Fiòdena non è lì a succhiarsi l’ammezzato, e neppure i barboni sono usciti a far cappello. È il 23, mi dico attraversando il piazzale, chi può è già in ferie. A me invece tocca la conciliazione.

Alzo lo sguardo.

All’ultimo piano del grattacielo dove un tempo c’era l’ENI, l’insegna della Hyrule Gameworks è uno spettro che sporca di viola le nebbie del lago. L’errore principale, lì, l’avevano commesso gli architetti. L’idea di giocarsela da milanesi a Roma, per creare l’ennesimo bosco verticale, aveva lasciato il palazzo alla mercé di viticci e rampicanti secchi, come fra le macerie di Call of Pripyat.

E poi c’erano i miei di errori. Quelli che avrei pagato a breve. Un buco nero supermassivo di boicottaggi e meme che non si vedeva dal dayone di Cyberpunk 2077.

«Vincé?»

Riconosco la voce.

Samuele.

«Bella, vez

È la prima volta in quattro anni che lo becco vestito casual. Zoppica ad abbracciarmi. Sotto l’ascella, una lunga scatola di polistirolo e una bustina dell’immondizia vuota. Curvo nel suo parka, sembra mal ritagliato da un videoclip degli Oasis.

«Vieni» mi dice «t’accompagno.»

Mentre passiamo il badge ai tornelli, vedo che ha sei punti sullo zigomo, ancora freschi, la bocca tumida e gli manca un pezzo di lobo. Sta crepato.

«È oggi?» chiede incrociando la mia occhiata.

Annuisco. Lui mormora in assenso, senza mostrarmi troppo i denti. Noto che la sua calata da tortello in brodo oggi fischia più che mai. Forse ieri n’ha persi un paio.

«Pure tu al decimo?»

«Sì.»

«Quando concili?»

«Fra poco. Tu, invece? Rescissione o demansionamento?»

«Seh, magari. Moretti m’ha ucciso.» biascica Sam «Per lo sviluppatore junior, quello che s’è fregato l’alfa di Cryolethal. L’accusa mia è di complicità in spionaggio industriale. Mi fanno “Te lhai messo là e ora tarrangi”. Io però che ne potevo sapere? Cioè, dimmi tu, no? Quante possibilità c’erano di prendersi una serpe in casa?»

«Perciò annullamento?»

Samuele fa di .

«Prendo gli ultimi cocci e poi game over. Anche se» aggiunge mostrandomi la lunga scatola misteriosa «passavo pure per lasciarti questa, ma meglio dopo. Non vorrei che, come si chiama, lì, Valentini? Ti rompa il cazzo ché tardi.»

Le porte si aprono.

Ci salutiamo.

Tiro dritto verso la mia stanza. Mentre vado, dalla 10-65 sbuca quel testa di cazzo di Persichini che m’allunga un ghigno tossico e batte l’indice sul Rolex, come se potessi davvero dimenticarmelo, il colloquio. Non vede l’ora di farmi le scarpe, ‘sto merda.

Poso cappello e giubbino.

A un passo dalla Sala Risoluzioni, dove prima ci servivano gastriti un tanto al chilo e ora incisivi e nocche, vedo uscire una coppia di grossi barellieri. Il tipo che sta in mezzo ai due, sangue sul naso e l’avambraccio a dondolargli dall’omero spezzato, lo riconosco.

È Bordignon, il freschissimo 110-e-lode della Contabilità.

Lo guardo. Il suo viso è un enorme bubbone. Bordignon si muove a stento. Rantola, però non grida. Con un tonfo, l’avambraccio gli cade dal mezzo moncone, poi resta lì. Nessuno lo raccoglie, neppure gli infermieri. Vorrei dar di stomaco, ma è vuoto. Ho i palmi sudati come la sera che incontrai Peter Molyneux, e più freddo del giorno in cui ho preso il BAFTA, e nel frattempo Bordignon annaspa, ma quando gli scenderà tutto l’OxyContin che ha in vena, lo sentiranno gridare anche da Viterbo.

Ho paura. La realtà non ha i checkpoint.

«Il prossimo.»

Sull’uscio della vecchia mensa c’è la Toraldo delle Risorse Umane, cartelletta in mano e neanche una ciocca fuori posto. «Avanti.» dice.

La Sala Risoluzioni è uno sgombro stanzone dai muri grigio Buchenwald e coi soffitti a pannelli antirumore. Ai miei piedi, centinaia di mattonelle in linoleum, progettate per scasinarci l’equilibrio, pulsano dei neon riflessi sulle stampe a spirale.

Davanti a me, smarmellato qua e là, c’è del sangue rappreso. E una decina di metri oltre, con l’assistente che nel frattempo gli sfila giacca e anelli, vedo Valentini.

L’altoparlante sul grande specchio a due vie, in fondo alla sala, d’improvviso gracchia delle parole. Distorte, come quelle degli spioni di Report e Chi lha visto?

«Nome, cognome, matricola e struttura.» fa la voce.

«Vincenzo Fruscio. 556112. Ottimizzazione D1.»

Superata l’unica parte sincera della farsa, la voce vuole che spieghi al «dottor Valentini e agli auditori qui presenti» come sia stato possibile «arrivare al dayone di Yoshikos War ignorandone la pletora vergognosa di glitch e bug immediatamente riportati sia dai consumatori che dalla stampa specializzata.» e io azzardo a difendermi, ma «Nonostante» mi bloccano «le proibitive sessioni di overtime a cui lei ha sottoposto il suo team. Tutti straordinari» ci tiene a precisare poi «che per palesi violazioni degli standard aziendali non riceverete né lei né loro.»

«Capisco.»

«Vorrebbe addurre una sua giustificazione al Comitato?»

Ignorando Valentini che si leva il cardigan, do l’unica risposta che non getti altri colleghi nel mio stesso tritacarne, perché loro avevano «Sistemato il possibile» dico io tranquillo «ma rispettare quella deadline era fantascienza. Di più non si poteva.»

«Bene, dottor Fruscio. Lo mettiamo a verbale?»

«Sì.»

«Dottor Valentini.» fa di nuovo la voce «La risoluzione presentata dal suo vice-responsabile la soddisfa? In qualità di capufficio» aggiunge «la crede in linea col danno economico e d’immagine subito dall’azienda?»

«No.»

«Allora è libero di conciliare.»

Lui si scaraventa contro di me. Alzo la gamba. Un calcio. Torno adolescente in un attimo, il bullo del campetto vuole fottersi opallon’, le nocche di Valentini mi spengono la memoria, hard reboot, poi m’arriva una craniata sul naso. Dolore. Ossa in frantumi. Ho due chiodi nel cervello. Cado. Lui sopra di me. Ogni pugno che becco, mentre la stanza sparisce a nero, è un ringhio fra i suoi denti bavosi. Svengo.

Per lui, vittoria fiammante.

Riapro gli occhi.

Per me, l’infermeria.

Mi volto. A destra vedo Bordignon, steso lungo sulla branda vicina, mentre il dottor Nazareni solleva un telo azzurro a coprirgli la faccia.

«Te almeno sei vivo, snàporaz

È Samuele, lì accanto a me, con quella lunga scatola sulle cosce.

«B-bella, vez.».

La mia testa è un grumo di dolore.

«Il Comitato non ti licenzierà. Sei troppo prezioso, dice Valentini, ma fino al 9 gennaio, che è la nuova deadline, lavorerai dalle cinque a mezzanotte tutti i giorni. E senza straordinari. O così, o dovrai saldare di tasca tua quello che ha perso l’azienda.»

«Piuttosto do le dimissioni.»

«E che risolvi? Attiverebbero la penale sui debiti e stai-»

«Da capo a d-dodici?» lo fermo io «Eh, e allora come devo fare?»

«Un modo ci sarebbe, ma è una follia.»

«Dimmi.»

Una fitta mi spezza.

«Chiusa la conciliazione, uno ha cinque ore per domandargli subito un appello.»

«M-ma scusa, abbiamo possibilità d’appello e nessuno la sfrutta? Perché?»

«Perché alla Direzione fa comodo non si sappia, è una clausola in minuscolo. E a quello aggiungi che, se risali la catena, le probabilità di sopravvivenza dei dipendenti normali s’assottigliano. Te guarda Bordignon, guarda. Oggi doveva risolverla con la sua funzionaria, la Timi, ed eccolo lì. Vuoi mica crepare anche tu?»

«Perché dovrei?»

«Perché te l’ho detto, vez, nei casi d’appello scali la gerarchia. Più su del Vàlenz c’è l’amministratrice delegata, e siccome i dirigenti son vecchi e fragili, a loro è concesso lottare all’arma bianca, tipo Mortal Kombat. Finirai fatalato, se ci provi.»

«Me la caverò.» gli dico provando a sedermi «Devo chiamare il Personale. Non ho-»

Samuele mi ferma e scuote la testa.

«Bona lè, vez. Ti pareva che non ascoltavi, ma hai ragione. È una scelta tua. E allora ecco.» dice porgendomi la scatola «È pericoloso andare da solo. Prendi questa.»

La apro.

«U-una spada di legno?»

«Non è sgrava da endgame» mi sorride Sam «ma forse il gioco lo rompe uguale.»


Antonio Amodio nasce a Foggia il 10/11/1992. Lavora come programmista e aiuto autore in RAI Cultura. Ha scritto diversi racconti e la trilogia Vicoli ciechi per La nuova carne. Ha pubblicato su Colla, Bomarscé, Narrandom, Metatron, GELO, Malgrado le Mosche, Quarta Corda, Silicio, Coye, Limen Pastiche ed Elemento115. Uno dei suoi racconti, Fedora, si è classificato primo all’edizione 2024 di Shots (Galileo Editore). Vive a Roma dal 2019.

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Racconti

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